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Calcio

Dolso: piacevo più ai tifosi che agli allenatori

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Arrigo Dolso (1946) è ancora uno dei giocatori più amati dai tifosi grossetani con qualche anno sulle spalle. A cavallo tra il 1979 ed il 1983 il talentuoso calciatore originario di San Daniele del Friuli viveva gli ultimi scampoli di gloria con la maglia unionista, prima del passo di addio avvenuto con il Ravenna nel 1984. In Maremma sarebbe tornato soltanto alla fine degli anni Ottanta per una esperienza come allenatore.

– Come iniziò la tua carriera?

Con l’Udinese, nel 1963-64, vincemmo il Campionato Primavera di Serie B. In prima squadra militavano giocatori come Arne Selmosson, Kurt Anderson, Vasco Tagliavini. A fine anno retrocedemmo in Serie C e per ripartire venne allestito un buon team con me, Vendrame, Braida, Fedele e Caporale. Era una squadra che esprimeva un bel calcio. A Diciannove anni e mezzo feci un provino col Bologna: era la squadra di Haller, Pascutti, Fogli e Bulgarelli. Mi tennero una settimana in prova, ma l’Udinese chiese molti soldi ed il trasferimento saltò. Subito dopo, era il 1966, si aprirono per me le porte della Lazio.

– A Roma sei rimasto dal 1966 al 1971.

Sono stati anni molto piacevoli, perché alla metà degli anni Sessanta Roma era ancora quella della “dolce vita” e di Pasolini. Era una città bella, tranquilla in cui la sera andavo volentieri in giro nei locali. Appena arrivato abitavo vicino al “Piper”, dove si esibivano Patty Pravo e Rocky Roberts, ed ogni tanto anche io andavo in quel famoso locale. L’allenatore della Lazio era Mannocci poi, dopo un paio d’anni, venne l’argentino Juan Carlos Lorenzo.

– Che tipo era Mister Lorenzo?

Era un bravo allenatore, ma era molto attento alla tattica ed io non ero uno che stava a guardare molto queste cose. A me piaceva giocare, più che allenarmi o pensare alla tattica. Era una cosa sbagliata, ma ero fatto così: questo aspetto piaceva più ai tifosi che agli allenatori. Una volta mi addormentai proprio durante una delle lezioni di tattica. Venni svegliato da uno schiaffone di Lorenzo che mi disse “Sto parlando e tu dormi”. Era un calcio diverso da adesso: il presidente della Lazio era Umberto Lenzini e mi voleva molto bene. Sono stati anni bellissimi.

– Nel 1971-72 lasciasti la Lazio per andare a Varese.

A Varese giocavo con Giorgio Dellagiovanna, Giovanni Trapattoni, Carlo Petrini, Angelo Rimbano, Giorgio Morini. Fu un’annata un po’ balorda in cui arrivarono poche vittorie e retrocedemmo.

– Dopo qualche anno speso tra Alessandria, Benevento e Trapani, nel 1979 arrivi a Grosseto.

Anche a Grosseto sono stato benissimo. Erano gli anni di Amarugi. Dopo un paio d’anni che ero in Maremma, il presidente voleva portarmi con sé a Cagliari ma avevo una certa età e rimasi a Grosseto.

– Il calcio rispetto ad allora è cambiato moltissimo.

Erano tempi belli. Adesso nel calcio va di moda contestare, ma spesso i tifosi non conoscono le difficoltà che possono esserci dietro le quinte di una squadra. Quando giocavo io, lo scudetto era una partita a Tre tra Milan, Inter e Juventus. Soltanto a volte emergevano altre realtà. Oggi anche il Milan fa fatica a stare al passo con le altre squadre a livello europeo che sono in mano agli sceicchi. Mantenere una squadra di calcio ha costi elevati e l’alternativa è la programmazione, ma diventa difficile programmare se poi cacciano l’allenatore dopo Tre o Quattro risultati negativi. Questo non va bene, perché un programmazione deve avere una base di almeno Due-Tre anni. Il problema è che spesso non si dà il tempo di crescere ad una squadra, non c’è la pazienza di aspettare.

– Nel 1989 torni da allenatore in Maremma.

Io stavo bene a casa mia, all’Elba. Non volevo venire a Grosseto ed accettai l’incarico perché ero amico con il dirigente Romano Sebastiani. A quei tempi il Grosseto era in mano a degli imprenditori elbani ed io avevo detto di no anche al presidente Pieruzzini, ma poi venne a parlare con me Sebastiani ed accettai. E’ stato un bell’anno per me; anche se ci fu qualche contestazione, la ricordo come un’annata positiva. Era una squadra discreta.

– Di cosa ti occupi adesso?

Seguo i ragazzi del 2002 dell’Audace qui all’Elba. La società ha fatto un gemellaggio con il Milan ed ogni tanto viene a seguirci Graziano Mannari. I ragazzi sono disciplinati, ma non devo pretendere molto perché sono molto giovani ed ancora devono formarsi.

– Quale insegnamento cerchi di dare ai tuoi ragazzi?

Ai miei ragazzi dico sempre di studiare perché se aspettano di mangiare con il calcio, moriranno di fame. Appena arrivano al campo chiedo loro come vanno le cose a scuola; è fondamentale studiare e non devono farsi illusioni, anche se sono bravini con il pallone.
Nel calcio, come in tutti gli sport, sono spesso i genitori a rovinare i ragazzi: vedono la possibilità di fare soldi e sbagliano di grosso. I bambini devono pensare a giocare e a divertirsi, va bene qualsiasi sport purché si divertano e non stiano sempre attaccati ai computer.

– I tifosi ricordano ancora che giocavi con le calze abbassate.

Quella di giocare con le calze abbassate è una particolarità che mi ha sempre contraddistinto sin da ragazzino. Non volevo imitare qualcun’altro in particolare. Colgo l’occasione per salutare tutti i tifosi e rivolgo loro in invito: cerchiamo di essere corretti e tifare il Grosseto anche quando le cose non vanno bene. Le contestazioni possono starci, purché non si sfoci nella violenza. Nel calcio ci vuole molta pazienza per vedere i risultati.

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Un gran giocatore, l’ultimo dei talentuosi veri, di quelli che si potevano permettere i calzettoni abbassati alla Sivori.
In occasione di un Napoli- Grosseto che si giocò a Casteldelpiano nell’agosto di trent’anni fa, fece letteralmente impazzire centrocampo e difesa partenopea che, alla fine, non sapeva più come affrontarlo! Sei stato davvero un grande!

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